Il lato romantico del gettone telefonico.

Pieni anni ’80. Al tempo vivevo con i miei nonni materni nella loro casina in campagna nei pressi di una frazione del comune di Locri. Frequentavo la scuola media e ciò per me significava dovermi svegliare alle 6,30, lavarmi, vestirmi, fare colazione e raggiungere la piazzetta della frazione distante un quarto d’ora di cammino per prendere l’autobus di linea che mi portava in centro. Tutte le mattine. Ma allora era tutt’altro che un sacrificio. Frequentare la scuola media negli anni ’80 (e nella mia zona) era il primo passo verso la prima innocente indipendenza. Dal momento in cui lasciavo la casa dei miei nonni fino a quando ci facevo ritorno (circa le 14) ero “libero”. Stavo alla grande coi nonnini ma la campagna ad un pre-adolescente iniziava a stare stretta. Nella cittadina c’erano amicizie, bar, giochi e tutto ruotava intorno alla scuola.

E c’erano le prime ragazzine che turbavano il mio cuore. 

Lei frequentava la mia stessa scuola media, avevamo la stessa età ma non frequentavamo la stessa classe: entrambi lo stesso anno ma in due sezioni diverse. I primi incontri nei corridoi, i primi scambi di sguardi, i “ciao” sui gradini della scuola all’uscita. Avevamo a disposizione pochi, pochissimi attimi ogni giorno: lei era di Locri ed all’uscita c’era sempre uno dei suoi genitori ad aspettarla. Comunicare a quel tempo “in remoto” era tutt’altro che facile come lo è oggi. Esisteva solo il telefono. Quello fisso, quello in casa, quello nella stessa casa dei genitori. Di lei. Sì perché i miei nonni allora non avevano neanche quello (ed in ogni caso non lo avrei utilizzato per questioni di privacy). Nella piazzetta della frazione c’era però l’unica cabina telefonica nel raggio di chilometri. Così io e lei decidemmo che avremmo rischiato.

Rischiato non descrive neanche lontanamente le sensazioni che provavo a quel tempo. Avevamo concordato un’ora precisa nel tardo pomeriggio: io avrei telefonato e lei avrebbe fatto di tutto per essere la prima in casa a sollevare la cornetta. I suoi a quell’ora di solito non c’erano ma viveva anche con i due fratelli. Così, per settimane, un giorno sì ed un giorno no, dovevo trovare una scusa per uscire di casa (o una per abbandonare anzitempo gli amici), raggiungere la piazzetta della frazione, sperare che nessuno mi notasse – ma a chi diavolo telefona così spesso il nipote di Filippo? – inserire il gettone nella fessura in alto, sollevare la cornetta e far ruotare il disco cinque volte col cuore che poi batteva a mille per la paura di sentire dall’altro capo la voce del padre o di uno dei fratelli di lei.

Diamine, ricordo ancora il numero – tlick, tr..trr, tr..tr, tr..trrr,tr..trrrrrrr, x : tuuuuu, tuuuu, pronto? –

Che bello che era quando rispondeva lei. Il cuore si calmava dalla paura e prendeva a riagitarsi per l’emozione. E parlavamo, e chissà cosa ci dicevamo (di questo non ho proprio memoria).

In questo momento sto immaginando un lettore random che non ha vissuto quell’epoca. – Voi mettere il cellulare e la sua comodità? – No, non lo farei mai. Sono iper tecnologico. Ma quanto era bello affrontare la pioggia, il vento, il buio, il freddo armato solamente di gettone telefonico e passione? Era magnifico. Quella cabina telefonica era una sorta di distaccamento della mia stanzetta ormai. Di lei conoscevo ogni graffio, ogni angolo, ogni odore. Capivo istantaneamente se qualcuno l’aveva usata dalla mia ultima visita. Quella cabina era un tetto, un luogo tutto mio e di chi avrei voluto raggiungere attraverso la cornetta, il disco ed un semplice gettone. 

Quella cabina mi ha regalato così tante emozioni che mai nessuno smartphone riuscirà minimamente ad avvicinare. Lei, insieme con il mio fedele compagno di allora: il gettone telefonico. 

P.s. Grazie al mio amico Peppe Laganà che mi ha riportato indietro nel tempo con un suo post su facebook!